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Foto di Antonio Giacometti

Ci risiamo. I teatri (e il mondo culturale in generale) sono costretti a chiudere per la seconda volta in cinque mesi. A niente sono serviti i tentativi di appello, gli studi AGIS che hanno definito i teatri un luogo sicuro e gli sforzi di ciascuno di noi. Di nuovo, dovremmo ritirare i remi in barca, sospendere le poche repliche che a fatica siamo riusciti a concordare, interrompere corsi iniziati da pochissimo e i piccoli gruppi umani che, nonostante le mascherine, imparavano a conoscersi, sospendere le prove e la creazione degli spettacoli; insomma tutto quello che siamo riusciti a rimettere insieme dopo la scorsa maledetta primavera. Pazienza. O forse no, di pazienza non ne abbiamo più. Questa volta siamo invasi da grande frustrazione e rabbia. E’ utopistico pensare che la chiusura si interromperà magicamente il 24 novembre e che dal giorno dopo tutto ricomincerà come prima. No, non sarà più come prima (che poi anche questo prima va sempre problematizzato). Interrompere adesso, lasciando che altri settori lavorativi (più produttivi ma sicuramente non più sicuri) vadano avanti, vuol dire interrompere progetti, percorsi creativi e possibilità di sopravvivere; per la seconda volta. Richiederà davvero tanta fatica riuscire a rimanerci in piedi questa volta. Certo, in questo periodo di stasi possiamo pensare a nuovi spettacoli, immaginare nuove e mirabolanti scenografie, piani diabolici per rilanciarci. Potremmo, e di questo slancio passionale è sicuramente fatto il nostro lavoro. Però ci sale anche un senso di amarezza e di sconforto, pensando a come è stato facile cancellarci di nuovo, ad alcune frasi di politici che risuonano nella testa e alle tante volte che ci siamo chiesti: ma tutti questi sacrifici valgono davvero la pena? Perché è questo il punto: la svalutazione che ci sentiamo addosso non è cominciata con la pandemia. Potete chiedere a chiunque abbia scelto di intraprendere un percorso artistico quante volte si è sentito dire: “si, ma di lavoro vero cosa fai?”, quante volte le condizioni del nostro mondo gli sono sembrate egoiste, chiuse, infami, quante volte si è sentito dire che lo avrebbero pagato in modo indecente o non pagato affatto, quante volte ha iniziato a pensare a un piano B. Quante volte ci siamo sentiti dire che non siamo indispensabili. Questo nuovo blocco assume sempre più la forma di una lama che piove dall’alto a tagliare teste. E, pur capendo profondamente la gravità della situazione, ci sembra assurdo dire che non esistano gerarchie nelle scelte politiche. Crediamo invece che le gerarchie siano una delle matrici delle scelte politiche e che questa pandemia le abbia solo evidenziate. E se questa lama cadrà lasciandoci incolumi, cosa succederà dopo? Quale saranno gli effetti a lungo termine di questa situazione? La lama potrebbe diventare ancora più affilata, più precisa, un bisturi gigante che farà strage di noi trentenni (o quasi trentenni), tutta quella bistrattata “generazione X” che in questi anni, in cui dovremmo affermarci e concretizzare progetti e sogni, non avrà niente in mano se non aver avuto la possibilità di ritirare i remi in barca e chinare il capo per l’ennesima volta. 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I teatri (e il mondo culturale in generale) sono costretti a chiudere per la seconda volta in cinque mesi. A niente sono serviti i tentativi di appello, gli studi AGIS che hanno definito i teatri un luogo sicuro e gli sforzi di ciascuno di noi. Di nuovo, dovremmo ritirare i remi in barca, sospendere le poche repliche che a fatica siamo riusciti a concordare, interrompere corsi iniziati da pochissimo e i piccoli gruppi umani che, nonostante le mascherine, imparavano a conoscersi, sospendere le prove e la creazione degli spettacoli; insomma tutto quello che siamo riusciti a rimettere insieme dopo la scorsa maledetta primavera. Pazienza. O forse no, di pazienza non ne abbiamo più. Questa volta siamo invasi da grande frustrazione e rabbia. E’ utopistico pensare che la chiusura si interromperà magicamente il 24 novembre e che dal giorno dopo tutto ricomincerà come prima. No, non sarà più come prima (che poi anche questo prima va sempre problematizzato). Interrompere adesso, lasciando che altri settori lavorativi (più produttivi ma sicuramente non più sicuri) vadano avanti, vuol dire interrompere progetti, percorsi creativi e possibilità di sopravvivere; per la seconda volta. Richiederà davvero tanta fatica riuscire a rimanerci in piedi questa volta. Certo, in questo periodo di stasi possiamo pensare a nuovi spettacoli, immaginare nuove e mirabolanti scenografie, piani diabolici per rilanciarci. Potremmo, e di questo slancio passionale è sicuramente fatto il nostro lavoro. Però ci sale anche un senso di amarezza e di sconforto, pensando a come è stato facile cancellarci di nuovo, ad alcune frasi di politici che risuonano nella testa e alle tante volte che ci siamo chiesti: ma tutti questi sacrifici valgono davvero la pena? Perché è questo il punto: la svalutazione che ci sentiamo addosso non è cominciata con la pandemia. Potete chiedere a chiunque abbia scelto di intraprendere un percorso artistico quante volte si è sentito dire: “si, ma di lavoro vero cosa fai?”, quante volte le condizioni del nostro mondo gli sono sembrate egoiste, chiuse, infami, quante volte si è sentito dire che lo avrebbero pagato in modo indecente o non pagato affatto, quante volte ha iniziato a pensare a un piano B. Quante volte ci siamo sentiti dire che non siamo indispensabili. Questo nuovo blocco assume sempre più la forma di una lama che piove dall’alto a tagliare teste. E, pur capendo profondamente la gravità della situazione, ci sembra assurdo dire che non esistano gerarchie nelle scelte politiche. Crediamo invece che le gerarchie siano una delle matrici delle scelte politiche e che questa pandemia le abbia solo evidenziate. E se questa lama cadrà lasciandoci incolumi, cosa succederà dopo? Quale saranno gli effetti a lungo termine di questa situazione? La lama potrebbe diventare ancora più affilata, più precisa, un bisturi gigante che farà strage di noi trentenni (o quasi trentenni), tutta quella bistrattata “generazione X” che in questi anni, in cui dovremmo affermarci e concretizzare progetti e sogni, non avrà niente in mano se non aver avuto la possibilità di ritirare i remi in barca e chinare il capo per l’ennesima volta. Video source missing Image[/cs_content_seo]
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